Giocare con la sabbia

Il gioco della sabbia è una metodica utilizzata prevalentemente in alcuni percorsi di terapia analitica, ha radici lontane e dà la possibilità a chi la utilizza di “pensare con le immagini”, attraverso il contatto con la sabbia posta in una sabbiera e degli oggetti in  miniatura. Questa proposta che, in analisi, diventa una modalità altra di conoscere e avvicinarsi al proprio mondo interiore, in un modo a tratti disorientante per l’adulto che lo vive, può essere pensata e sperimentata in modo differente anche in contesti educativi con bambini di diverse fasce d’età e con obiettivi e modalità chiaramente differenti.

Infatti, offrendo al bambino, in uno spazio accuratamente predisposto e pensato, la possibilità di giocare da solo con la sabbia, con lo sguardo di un adulto adeguatamente  formato che lo osserva semplicemente, gli si permette di giocare e sperimentarsi in modo libero, con pochissime regole e nessuna indicazione.

Da un paio d’anni, in alcuni servizi della prima infanzia della cooperativa sociale Koinè     (nidi e tempi per le famiglie) è stato proposto il gioco della sabbia ad alcuni bambini di 2-3 anni.

Un’educatrice accompagna uno o due bambini alla volta, in uno spazio allestito con una sabbiera e alcuni oggetti in miniatura posti su un tavolino, e lo invita a giocare, con l’unica regola di non buttare la sabbia fuori dalla sabbiera. L’adulto di riferimento si siede nella stanza, osservando e registrando ciò che vede. In questo modo, viene data la possibilità a bambini che sono entrati nella fase del pensiero simbolico, di sperimentare un gioco che ha in sé numerose potenzialità. Il contatto con la sabbia rimanda al rapporto con il corpo, con le modalità di cura e di contatto ricevute ed esperite nei primissimi mesi di vita; il bambino, se lo desidera e ne sente il bisogno può mettere in scena delle storie con gesti, parole, movimenti del corpo, delle mani in particolare; o semplicemente può esprimere all’interno di uno spazio che contiene (la sabbiera) dei contenuti che non sono stimolati dall’adulto, ma che arrivano dalle profondità di sé. Si dà così al bambino la possibilità di  giocare in uno spazio libero e protetto, con lo sguardo di un adulto che contiene.

Il compito dell’educatore è arduo e faticoso, ma altamente formativo se perseguito con fiducia. Infatti, non è tenuto a interpretare i gesti e il gioco del bambino, ma è chiamato a “stare” lì con lui, ad osservarlo, ad entrare con lui in quella dimensione di spazio potenziale bene descritta da Winnicott, in cui si è nella realtà, ma al tempo stesso si vive nell’immaginazione. In questo spazio, sono innumerevoli le possibilità trasformative, di sguardi altri e più vicini al mondo interiore del bambino. L’educatore che osserva si educa al difficile compito di “stare con quello che c’è”, di far sentire al bambino la sua presenza, con il suo corpo, i suoi occhi, il suo silenzio; e così, il bambino, spesso sempre più sovra-stimolato, per una volta, può semplicemente giocare senza finalità predefinite o obiettivi da raggiungere. Il bambino che decide di toccare o non toccare la sabbia, di usare o non usare gli oggetti, di fare buchi, di nascondere, di parlare per tutto il tempo o di tacere come “perso” in un altro mondo, può svelare quello che è e dà all’adulto, che lo osserva, la preziosa possibilità di guardarlo veramente, senza pretese di controllo, giudizio, direzione giusta o sbagliata.

E forse, è proprio a partire da qui, da questo spazio potenziale di possibilità che è possibile accompagnare il bambino a sentirsi di più, sentendosi sentito, e a farlo con un adulto che può imparare a conoscerlo maggiormente.

(testo di Silvia Mozzi del centro per l’infanzia comunale di Cassina de Pecchi)

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